Quando si parla di “legittimo affidamento” del privato nei confronti della Pubblica Amministrazione si fa riferimento all’interessa del primo alla tutela di una situazione soggettiva consolidatasi per effetto di atti e comportamenti della seconda.
1. Il principio del legittimo affidamento nei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione
La ratio del principio è quella di contemperare due contrapposti interessi: quello vantato dal singolo, diretto a mantenere il vantaggio che l’azione amministrativa gli ha garantito, e quello della P.A., volto all’attuazione dei principi di buon andamento ed imparzialità sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
In tale tematica, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza sovranazionale.
La nozione di legittimo affidamento è stata formulata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, influenzata dalla riflessione maturata dalla Corte Costituzionale della Repubblica federale tedesca.
Nell’ordinamento tedesco il principio è sorto come corollario di quello di certezza del diritto, diversamente che nei principali ordinamenti europei – tra cui quello italiano-nei quali si configura come espressione del principio di buona fede.
Quest’ultimo, da intendersi in senso “oggettivo”, secondo la felice sintesi contenuta nella più approfondita ricostruzione riferita al diritto amministrativo, esprime:
1) l’obbligo di correttezza, in forza del quale l’amministrazione deve comportarsi con lealtà e trasparenza, guidando e facilitando l’adempimento dei doveri da parte dei privati;
2) l’obbligo di non venire contra factum proprium, cioè di comportarsi in modo coerente e non contraddittorio al proprio precedente orientamento.
Il principio di buona fede oggettiva, desumibile dai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., trova quindi la sua massima concretizzazione nella tutela dell’affidamento del privato, il quale può legittimamente confidare nel fatto che l’Amministrazione si comporti con correttezza e coerenza, osservando le sue precedenti determinazioni.
E’ nel 1957, con la pronuncia “ALGERA E ALTRI” che i giudici comunitari, per la prima volta, qualificano il legittimo affidamento come limite al potere di autotutela della p.a., affermando che il provvedimento amministrativo, laddove abbia ingenerato il convincimento, in buona fede, circa la spettanza del bene oggetto dell’atto medesimo, non può venir rimosso a fronte di un lasso temporale consistente.
Di analogo contenuto la pronuncia “TOPFER” del 3 maggio 1978.
Sebbene il concetto di affidamento risulti radicato nella nostra tradizione giuridica sin dai tempi del diritto romano, la sua affermazione nell’ambito del diritto pubblico ed in particolare del diritto amministrativo è relativamente recente.
E’ solo con la legge 11 febbraio 2005 n. 15, che ha modificato tra gli altri, l’articolo 1 della legge 7 agosto 1990 n.241, che il principio del legittimo affidamento è stato recepito nel nostro ordinamento attraverso il rinvio, fra i criteri che reggono l’attività amministrativa, ai “principi dell’ordinamento comunitario”.
Ulteriore conferma del ruolo assunto dal principio di matrice comunitaria si rinviene nel comma 2 bis dell’art. 1 comma 2 bis della legge 241/1990 (introdotto dall’art.12 comma 1 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76) che dispone che “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.
La rilevanza oggi assunta dall’interesse dei privati nel rapporto con la Pubblica Amministrazione si ricava ulteriormente dall’art. 21 quinquies e dall’art.21 nonies della legge 7 agosto 1990 n 241 cit. come si dirà infra.
Il succitato principio ha trovato riconoscimento da tempo nella giurisprudenza costituzionale , nella giurisprudenza tributaria, in quella contabile ed amministrativa .
La Corte costituzionale già con la sentenza n. 349 del 1985 ha riconosciuto tra i principi costituzionali non scritti quello del legittimo affidamento del privato nella certezza dell’ordinamento giuridico.
L’espressione più consapevolmente avanzata sul tema è stata espressa dalla Cassazione, nella sua veste di vertice della giurisdizione tributaria.
Sulla base normativa rappresentata dall’art. 10 della legge 27 luglio 2000 n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), che reca la rubrica: “Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente”, la sezione tributaria della Suprema Corte (con la sent. 10.12.2002, n. 17576) ha, infatti, concluso che il principio della “tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica”, quale “elemento essenziale dello Stato di diritto”, ancorato al principio di eguaglianza dinanzi alla legge, sub specie del rispetto del canone della ragionevolezza, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico, e, quindi, anche in quelli tributari, e costituisce un preciso limite all’esercizio sia dell’attività legislativa, sia dell’attività amministrativa, e di quella tributaria in particolare.
Anche la giurisprudenza della Corte dei conti in materia pensionistica, con la sentenza delle Sezioni Riunite QM7/2007, ha riconosciuto la sussistenza del legittimo affidamento dell’interessato, legata al decorso ed al mancato rispetto da parte della p. a. dei termini procedimentali previsti dall’art. 2 della legge n. 241/90.
La giurisprudenza amministrativa ha tardato ad elaborare una così esplicita e completa teorizzazione del principio in esame; la ragione è da rinvenirsi probabilmente nella supposta coincidenza tra interesse pubblico e interesse individuale, dovuta alla convinzione che la P.A., in quanto tale, fosse sempre in grado di bilanciare correttamente le varie esigenze della collettività.
Il mutamento si deve alla nascita della teoria del c.d. ”contatto sociale qualificato” tra privato e Pubblica Amministrazione.
In questo ambito, lo status rivestito dall’Amministrazione – in quanto soggetto tenuto all’osservanza dei principi di imparzialità e buon andamento ai sensi dell’art. 97 Cost. – impedisce che questa possa essere considerata alla stregua del mero quisque de populo al momento del “contatto” con il privato cittadino e, in quanto tale, sciolta dal rispetto dell’obbligo di buona fede. Essa, dunque, in virtù degli apparati da cui è composta e dalle capacità in questi insite, assurge a “referente più qualificato” cui il privato può relazionarsi. E, in quanto tale, diviene soggetto “professionale” del diritto amministrativo intrinsecamente capace di suscitare affidamenti nei confronti del privato.
Oggi anche la giurisprudenza amministrativa è , tuttavia, unanime nel riconoscere che la tutela del legittimo affidamento del destinatario dei provvedimenti amministrativi costituisce un limite all’azione della pubblica amministrazione, la quale, nel rispetto dei principi fondamentali fissati dall’art. 97 della Costituzione, è tenuta ad improntare la sua azione non solo agli specifici principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento secondo buona fede, cui corrisponde l’onere di sopportare le conseguenze sfavorevoli del proprio comportamento che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un legittimo affidamento ( fra tutte per chiarezza Tar Lazio, Roma, 16 maggio 2012 n. 4455).
Così delineate le origini del principio si passa ora ad esaminare il contesto in cui esso maggiormente viene in rilievo ovvero l’esercizio del potere di autotutela della Pubblica Amministrazione.
2.Autotutela e legittimo affidamento
La Pubblica Amministrazione ha il potere di ritirare i provvedimenti già adottati.
Secondo autorevole dottrina l’autotutela può essere anche definita come “la
capacità riconosciuta dall’ordinamento all’Amministrazione di riesaminare
criticamente la propria attività, in vista dell’esigenza di assicurare il più efficace
perseguimento dell’interesse pubblico”. Il riesame amministrativo dà luogo ad un procedimento di secondo grado, ad iniziativa d’ufficio, che incide su un provvedimento già adottato e si estrinseca nelle forme dell’annullamento d’ufficio e della revoca, rispettivamente disciplinati dall’art.21 nonies e dall’art.21 quinquies della legge 241/1990.
Presupposti del primo sono l’accertata illegittimità del provvedimento (violazione di legge, eccesso di potere, incompetenza relativa) e la sussistenza di un interesse concreto e attuale alla sua eliminazione che non si esaurisce nell’accertamento in sé della legittimità o illegittimità’.
Sotto il profilo procedurale vige il criterio del contrarius actus secondo il quale il riesaminante dovrà essere lo stesso che ha adottato l’atto e dovrà seguire le medesime forme e modalità attraverso cui ha disposto in prima battuta. Il provvedimento di secondo grado dovrà essere uguale e contrario rispetto all’atto primario
L’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione di un atto, tenendo conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti, deriva dall’esigenza di responsabilizzare le amministrazioni all’adozione di un contegno chiaro e lineare, un atteggiamento basato sul generale principio di clare loqui.
A differenza dell’annullamento dell’atto amministrativo, che ha come presupposto vizi di legittimità, la revoca può intervenire su atti viziati nel merito ovvero divenuti inopportuni per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, per mutamento della situazione di fatto, nonché per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Orbene il potere della PA di riesaminare i propri provvedimenti, nella duplice veste sopra descritta, incontra il limite del legittimo affidamento.
Perché possa parlarsi di affidamento legittimo occorre in primo luogo che l’affidamento sia sorto in presenza di un atto favorevole per il destinatario, in quanto, di fronte ad un atto sfavorevole, il privato può solo vantare il diritto di agire in sede giurisdizionale per la sua rimozione.
E’ altresì necessario che la situazione giuridica di vantaggio non sia il risultato di comportamenti fraudolenti e artificiosi, contrari a buona fede, del privato e si sia consolidata nel tempo.
Infine l’affidamento può dirsi leso solo se sia decorso un certo margine di tempo dall’adozione del provvedimento e su questo aspetto ci si soffermerà infra.
In presenza di tutti e tre i succitati presupposti il potere di riesame dovrà dirsi recessivo rispetto alla conservazione degli effetti favorevoli prodotti nei confronti del destinatario dell’atto.
3. Il fattore tempo nell’esercizio del potere di riesame
Come sopra anticipato, il decorso del tempo è uno dei presupposti necessari affinché il privato possa vantare un affidamento legittimo tutelabile.
L’elemento tempo gioca da limite non in via autonoma ma in correlazione con il consolidamento delle situazioni private. Ciò significa che il decorso del tempo, di per sé stesso, non è di ostacolo all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio. Il tempo è fattore di condizionamento piuttosto che di preclusione del potere. In caso di annullamento d’ufficio l’art.21 nonies al comma 1 prevede che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”
Nella sua versione originaria la disposizione faceva riferimento al solo “termine ragionevole”.
E’ per effetto della modifica operata dall’art. 6, comma 1, lettera d), numero 1) della legge 7 agosto 2015, n. 124, che è stato previsto dapprima il limite di 18 mesi e oggi, per effetto di una seconda modifica operata dal D.L. n. 77/2021, quello di 12 mesi.
Si è stabilita, dunque, una presunzione di non ragionevolezza del termine decorso il quale è precluso l’esercizio del potere di autotutela.
Ciò non toglie, naturalmente, che nelle medesime ipotesi sarà comunque possibile dimostrare che – in relazione alle peculiarità del caso di specie – persino un termine più breve di quello pari a diciotto mesi potrebbe in concreto rivelarsi irragionevole.
Sotto tale aspetto la ratio sottesa alla novella del 2015 è da rinvenire nell’intento di responsabilizzare la P.A., la quale sarà chiamata, secondo il generale principio di comportamento secondo buona fede, a sopportare le conseguenze sfavorevoli delle proprie pregresse determinazioni, senza che possa risultare leso il soggetto privato il quale abbia riposto un legittimo affidamento su di una situazione provvedimentale, fattuale o documentale ormai cristallizzatasi.
Si è in tal modo posta una limitazione alla possibilità per la P.A. di intervenire mediante provvedimenti di secondo grado, e tanto al fine di assicurare una maggiore certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ormai consolidate in capo ai privati.
Un’eccezione ai principi appena richiamati è prevista dallo stesso articolo 21- nonies, comma 2-bis e riguarda i provvedimenti amministrativi ottenuti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive false e mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato.
Resta, altresì, ferma l’ipotesi dell’annullamento governativo per gravi motivi che rimane libero da qualsiasi limite temporale (art. 2, comma 3, lett. p) L. 23 agosto 1988, n. 400).
Nonostante il disposto dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 suggerisca di distinguere, ai fini dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, tra provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici e ogni altra tipologia di provvedimento, la commissione speciale del Consiglio di Stato, in sede di parere 30 marzo 2016, n. 83912 ha ritenuto che la richiamata previsione costituisca espressione di un più generale principio di sostanziale consumabilità del potere di agire in autotutela per effetto del decorso del tempo.
Si tratterebbe, in definitiva, di una previsione che sancisce la nascita di una nuova regola generale di certezza applicabile a tutti i rapporti tra amministrazione e privati prevista proprio a vantaggio dei secondi.
Venendo ora alla revoca, l’art.21 quinquies, al comma 1, prevede che “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo”
Orbene mentre per l’annullamento d’ufficio la tutela dell’affidamento passa attraverso la previsione di un limite temporale nel caso della revoca la tutela della posizione degli interessati risulta invece garantita da un obbligo di indennizzo a carico dell’amministrazione.
Tuttavia nonostante la succitata disposizione non assoggetti il potere di revoca ad un termine prestabilito, la giurisprudenza amministrativa ha di fatto subordinato la legittimità del succitato potere di riesame alla previsione di un termine ragionevole per il suo esercizio.
E la ragionevolezza del temine deve essere riguardata in riferimento all’esigenza di contemperare l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo e l’affidamento del privato.
Il campo in cui maggiormente la giurisprudenza è stata chiamata ad esprimersi in ordine alla legittimità di una revoca disposta dopo un lungo lasso di tempo, è quello dei finanziamenti pubblici.
In non poche occasioni i Tar ed il Consiglio di Stato hanno infatti individuato, in un’ottica di bilanciamento dei contrapposti interessi, il termine entro cui il potere di revoca potesse considerarsi legittimo in relazione al lasso di tempo trascorso dall’adozione del provvedimento attributivo del beneficio economico
4. Cenni conclusivi
Dalla superiore – seppur non esaustiva – disamina si può concludere con la considerazione che sebbene il principio del legittimo affidamento non sia espressamente richiamato in nessuna disposizione del nostro ordinamento , assume , al pari della clausola di buona fede da cui trae origine, il ruolo di clausola generale che governa i rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione e che è destinato ad assumere sempre maggiore pregnanza anche grazie al ruolo interpretativo e integrativo della giurisprudenza .